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Inguaribili ma non incurabili

Prendersi cura di una persona è cosa ben diversa dal “curare” una malattia; e quando “non c’è più niente da fare”, in realtà c’è ancora tanto da fare. E’ una delle convinzioni emerse sabato 20 marzo, nell’aula magna del Museo tridentino di scienze naturali a conclusione dell’incontro promosso dall’associazione Medicina, dialogo, comunione sul tema “Curare e prendersi cura della persona alla fine della vita”.
 

Di fronte ad un folto pubblico, la voce di un esperto si è intrecciata a quelle di chi ha vissuto l’esperienza di stare vicino a chi sta morendo. Il dott. Alberto Marsilio, medico geriatra, ha illustrato una realtà che interessa soprattutto gli anziani; la fine della vita è un tema con molte zone grigie, dibattuto a livello sociale e politico prima che medico, e richiede una riflessione profonda, basata sull’unicità e l’irripetibilità di ogni persona, in ogni fase dell’esistenza. Un tema su cui ci si può confrontare senza pregiudizi ideologici solo se si mette al centro il valore della persona, come ha sottolineato il dott. Giovanni Guandalini, moderatore dell’incontro.

Il progresso della medicina ha portato ad una dilatazione del processo del morire: si muore sempre più spesso in ospedale, circondati dalla tecnologia, ma soli; parliamo di eutanasia, di accanimento terapeutico e perdiamo la cultura dell’accompa-gnamento, il rapporto di fiducia medico-paziente.
Eppure l’affrontare insieme una malattia è forse l’unico modo per sopportare il distacco, ha raccontato Anna, che ha accompagnato il marito Alessandro fino alla fine in una comunione che non cancella il dolore, ma aumenta l’amore.

Lasciare un nostro caro da solo è inumano per lui, ma anche per noi, ha ricordato Lucia, che ha dovuto insistere con i medici per stare vicina al marito nei suoi ultimi istanti.

Gianfranco, operatore in RSA, ha messo in luce un altro tipo di lutto, la demenza, che nasconde - ma non può certo - distruggere la dignità di una persona.

Per Andrea Delama, giovane medico, affrontare la morte è sempre diverso: cambiano i pazienti, i parenti, cambiamo noi, e i lunghi anni di università non insegnano come stare vicino a chi soffre.

Fra Ezio Tavernini, cappellano all’ospedale S. Chiara, ha capito che una vera testimonianza cristiana non è fatta di frasi vuote, ma è la presenza concreta di un cuore lieto e semplice, anche nelle situazioni drammatiche.

Chiara M., autrice trentina di due apprezzati libri diffusi ormai in vari Paesi, ha condiviso in una toccante video-testimonianza la sua doppia esperienza, di infermiera e malata: il valore incalcolabile di un gesto, di un momento anche breve ma tutto per il paziente, la libertà di poter piangere con qualcuno; alla fine, di fronte alla morte, saremo inesorabilmente soli, ma ogni gesto di amore ricevuto è un aiuto per prepararsi a quel momento con la pace nel cuore.

La consapevolezza che una malattia inguaribile non è incurabile è alla base della recente legge sulle cure palliative e la terapia del dolore (ne parliamo a parte). Che rischia però – si è detto sabato - di rimanere purtroppo sulla carta, non solo per gli ostacoli culturali e sociali a prendersi cura di un malato a domicilio, ma anche per la carenza di risorse finanziarie e umane sul territorio; incrementarle, investendo sulla formazione, è la sfida del prossimo futuro.

 documenti e file audio

fonte: Vita Trentina del  28/03/2010



Chiara Lubich

Nasce a Trento il 22 gennaio 1920, seconda di quattro figli.
La madre è fervente cattolica, il padre socialista.
Nell’imperversare della seconda guerra mondiale, sul crollo di ogni cosa, comprende che solo Dio resta: Dio che è Amore. La sua vita si trasforma. Lo sceglie come unico Ideale. 

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