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Il Pakistan dopo il terremoto

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Gli ultimi dati ufficiali parlano di più di 73.000 morti, 79.000 feriti, più di 3 milioni e 300 mila persone senza tetto. Nella zona colpita non esistono più case, scuole, ospedali, strade. Ci sono ancora più di 400 villaggi in cui non è stato possibile arrivare neppure in elicottero. Ma il personale dell’esercito pakistano sta usando qualunque mezzo, anche gli asini, per cercare di portare provviste e medicine in questi posti.

La situazione è di una drammaticità difficile da immaginare. Gli ospedali più vicini, dove possono essere trasportati i feriti, sono a Rawalpindi e Islamabad, a 90 km dall’epicentro. L’emergenza sanitaria cresce di continuo, con il pericolo di epidemie e infezioni. L’aiuto della comunità internazionale purtroppo non è stato così tempestivo e sufficiente, e sembra che i media non siano più interessati alla tragedia. Ormai l’inverno è arrivato e non si sa come dare riparo a migliaia e migliaia di persone.

Questo solo per dare un’idea della situazione, ma vorrei parteciparvi soprattutto quanto sta facendo la comunità che ci gravita attorno in prevalenza cristiana in un contesto quasi totalmente musulmano.

Dopo l’esperienza di una nostra conoscente tra i malati di un ospedale subito dopo il terremoto, si è capito quanto era necessario offrire un servizio che nessuno era in grado a dare: ascoltare, condividere il dolore, assistere le persone sole. Ci siamo, quindi, organizzati in quattro gruppi con persone di tutte le età. Lavoriamo su due fronti:

Da una parte tre gruppi di persone visitano tre grandi ospedali. Molte sono le persone paralizzate, sole, con lo sguardo smarrito. Andiamo a pulire i malati, e non si può immaginare la loro gioia. Tanti ci dicono: “Abbiamo bisogno delle vostre preghiere; vedi ci danno tante cose materiali, ma prima abbiamo bisogno di preghiere e di tempo, per poter raccontare a qualcuno quello che ci è successo. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci stia accanto”.

Impossibile riportare le storie raccontate, alcune sconvolgenti. In queste settimane, abbiano raccolto dolore e dolore, ma anche tanta fede in Dio. Emerge, infatti, la purezza della fede nell’Amore di Dio di questo popolo.

Una signora diceva: “E’ morto mio marito e due figli, i parenti non so... mi hanno portato qui fuori coscienza. Mi sono svegliata nell’ospedale. Non ho più lacrime. Dio da, Dio prende”.

Un signore: “Non è rimasto niente, sembra che anche le montagne non siano più le stesse. Noi uomini eravamo nei campi, abbiamo cercato sotto le macerie, abbiamo cercato di togliere tutti quelli che riuscivamo. C’erano altri sotto terra, li sentivamo ma non abbiamo potuto liberarli scavando con le nude mani. Il peso era troppo ed eravamo sfiniti”.

Un signore raccontava: “Ero fuori nei campi quando è venuto il terremoto. Sono corso a casa, ed ho trovato quasi tutti i membri della mia famiglia vivi. Mia figlia era a scuola, sono corso, mi chiamava. Ho potuto salvarla con le mie mani, ma non sono riuscito a salvare mia madre. L’ho tirata fuori dalle macerie troppo tardi. Dio ci aveva dato tutto, stavamo bene…”.

Certo, mi viene da pensare quale dono sia questa fede pura nell’amore e nell’onnipotenza di Dio che guida la storia dell’umanità, ma anche quella nostra personale. Tante volte si sentono persone che si ribellano contro Dio. Come si può? Egli non è mica uno uguale a me! Lui ci accompagna lunga la vita dandoci le grazie di cui abbiamo bisogno per le varie situazioni. Questo è quello che ho sperimentato lungo questi anni in Pakistan e in modo particolare in questa tragedia del terremoto.

Il secondo fronte su cui operiamo è in un campo di assistenza (relief camp), allestito per circa 700 persone in due edifici e tende. Mancano altre tende e stiamo cercando di procurarle, così come coperte e tante altre cose.

Nel parlare con queste persone così provate, ci si rende conto che a volte sono umiliate da una “carità” poco delicata. Così abbiamo fatto un giro tenda per tenda ed abbiamo fatto una lista dei bisogni reali. Poi abbiamo comperato le cose ed i più giovani si sono occupati di preparare i pacchi di coperte, pentole, bicchieri, saponette, pettini, biancheria, cose per bambini… Tanti sono, infatti, i bambini piccoli, mentre manca tutta una generazione dai 12 ai 20 anni.

Il rapporto nato con i responsabili dell'amministrazione comunale è bello. La dottoressa italiana va lì al pomeriggio e per fortuna: ci sono tante persone con la polmonite.

Una delle necessità più urgenti erano i servizi igienici (c’erano solo 4 per 700 persone circa). La sera antecedente alla prima nostra visita al campo, avevamo ricevuto 2.000 euro: ci è sembrato segno che Qualcuno ci era a fianco per procedere. Ci siamo messi al lavoro e ora sono funzionanti 10 bagni e 5 docce e un posto per lavare i vestiti. Gli amministratori comunali sono meravigliati da tanta dedizione.

Questa emergenza ha generato vita nuova tra quanti siamo impegnati. Ci ha catapultati fuori da una condizione di minoranza cristiana e persone, anche molto semplici, casalinghe, ecc. si trovano a trattare ora con amministratori pubblici, medici, ecc.

Un altro risvolto positivo è una nuova luce nel rapporto con l’occidente cristiano. Un nostro caro amico musulmano ci ha confidato che davanti agli aiuti che sono arrivati dall’occidente quella ferita che aveva in cuore dopo gli avvenimenti di questi ultimi anni piano piano si sta rimarginando.

Un altro frutto importante ci sembra il fatto che cristiani e musulmani lavorino per la prima volta insieme, fianco a fianco, stimandosi reciprocamente.

Leggo la testimonianza di un amico: “Oggi sono andato in un ospedale del centro, vicino ad un grande e caotico bazar. Andavo per incontrare una suora di Madre Teresa, che mi aveva segnalato la situazione difficile di quell’ospedale.

Varcato l'ingresso principale, mi è stato difficile persino muovere i primi passi nel corridoio verso i reparti, tanto era forte il tanfo che si respirava. I reparti in pratica non esistevano più: uomini, donne, bambini, semplici fratture, gravi traumi, paralizzati, ovunque, in ogni camerata, in ogni corridoio. La suora appena mi vede, mi viene incontro felice: "per fortuna sei arrivato, ti aspettavamo!". Mentre mi indica alcuni pazienti più bisognosi di assistenza, mi dà in mano un paio di guanti, alcuni asciugamani, una saponetta e un secchio, e mi dice di andare a lavare quei pazienti, perché da più di dieci giorni (dopo il loro ricupero dalla terra e dalle macerie), nessuno ancora l’aveva fatto.

Confesso che mi ha preso una paura che mi avrebbe fatto scappare: non ho mai fatto questo servizio e, soprattutto in quelle condizioni, avevo anche un certo ribrezzo. Ho dovuto fare un salto interiore, per mettere da parte il mio io ed essere solo amore per quelle persone. Ma devo dire che poi non è stato difficile, anzi! Di fronte a quella sofferenza, a quelle ferite, alla tragedia che ognuno di loro ha ancora viva negli occhi, mi sentivo onorato di poter portare loro un minimo di sollievo. Potrà sembrare strano, ma sono state due ore direi di paradiso, perché era un continuo dare e ricevere amore. Un signore anziano, paralizzato per una lesione spinale, mentre gli asciugavo la testa e la lunga barba, ha cominciato a piangere, lodando Allah per il suo amore. E non finiva più di ringraziare”.