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Come ho conosciuto Chiara

IOLANDA DUCCIA CALDERARI  (1911-2009)

 

Devo dirvi come ho conosciuto Chiara e gli inizi del Movimento, quando non era ancora tale... ma per noi tutti era "l'Ideale". Andiamo molto indietro nel tempo, al '43-'44.
A Trento c'era la guerra. Subito dopo il primo bombardamento sulla città, c'erano state molte rovine, morti e anche tanti feriti. Essendo infermiera della Croce Rossa, sentii mio dovere di presentarmi subito in ospedale: c'era bisogno di molto aiuto e vi rimasi a servizio nei rifugi, fino alla fine delle ostilità.

Fu in occasione di una sirena d’allarme, che uscendo di casa per correre nel rifugio, sono impressionata, stupita, dal comportamento strano, inconsueto, di un gruppo di ragazze, al di là della strada. Anziché pensare di mettersi in salvo, come facevamo noi - perché, fra il resto, molte volte, quando suonava la sirena di allarme, avevamo già sulla testa gli apparecchi – queste, durante il tragitto si soffermavano a dare aiuto a persone nel bisogno: prendevano sotto braccio vecchine incapaci di correre, oppure soccorrevano una mamma con quattro o cinque bambini... Rimango così impressionata da questa carità, diciamo, eroica, sprezzante del pericolo, che mi riprometto subito di prendere contatto con loro. tanto più che in mezzo ad esse, avevo riconosciuto Chiara, che mi era stata presentata alcuni giorni prima.

Infatti, nel reparto ospedaliero dove lavoravo, c'era un giovane studente medico, il quale mi aveva confidato: “Fare il medico non è il mio solo lavoro, ho anche un'attività di carattere politico-sociale, ma clandestina”. E a quell’attività ben presto mi aggregai anch'io. In quell'epoca la nostra città era invasa dalle S.S...

Un giorno il mio amico medico mi confida: “Ho una sorella che amo e stimo molto, vorrei presentartela… Vedi un po' se riesci ad attirarla alla nostra causa”. Me la fa conoscere: era una ragazza giovane, semplice, però subito avevo notato in lei una personalità molto dignitosa, ed ero rimasta impressionata dal suo sguardo tutto interiore. Mi ascolta fino in fondo, poi mi dice: “Il vostro ideale è molto bello, però non posso dirvi di aderire subito, perché appartengo all'Azione Cattolica e devo chiedere il permesso alla mia presidente”. Così l’avevo conosciuto e adesso me la trovavo di fronte a casa mia.

Dopo una prima visita, confesso che quasi quotidianamente andavo a trovare queste mie nuove compagne, diventate subito amiche. Loro abitavano in un appartamentino molto piccolo, arredato rudimentalmente: una fila di brandine, un grande tavolo e alcune sedie, alle pareti un solo quadro, raffigurante il volto straziato di Gesù morente. Avevo subito capito che quell'immagine era il loro Amore, il loro tutto, il loro scopo, la loro vita.

Mi accoglievano sempre festosamente, nella gioia, anche se fuori infuriava la guerra. Ma io ero soprattutto attirata dal fatto che mi mettevano al corrente di quello che leggevano nel vangelo. Il vangelo, dunque. Ma io lo conoscevo? Forse, vi confesso, non lo avevo mai letto. E' ben vero che la domenica in chiesa un sacerdote ne leggeva un brano che poi commentava: le persone più devote ne avrebbero riportato dei buoni propositi, che sarebbero poi durati due, tre giorni, ma tutto finiva lì. Queste ragazze, invece, mi accorgevo, non solo lo leggevano, non solo lo commentavano, ma immediatamente lo mettevano in pratica frase per frase, alla lettera, senza annacquamenti, senza attribuzioni. Questa era la novità, era ciò che mi affascinava.

Un giorno Chiara mi accoglie più festosamente del solito: “Senti che cosa abbiamo letto nel vangelo: ‘Vi do un comandamento nuovo, amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi’ - poi continua - E' quel ‘come’ che ci dà la misura, Gesù come ci ha amati? Donando la vita per noi”. Vi fu un silenzio generale, poi a un certo punto una vocina alla mia sinistra, una di loro: “Ma io sono pronta sai a donare la mia vita per te!”. Poi alla mia destra un'altra: “Ma io sono pronta sai a morire per te!”. “E tu?” “E tu?” “E tu?”. Tutte eravamo pronte a donare la vita una per l'altra.

Si presenta alla “casetta” (non esisteva ancora il nome “focolare”) un povero a chiedere l'elemosina. Esse lo accolgono e aprono la loro piccola dispensa. Si ricordavano di aver letto nel vangelo: "Tutto ciò che avrete fatto al minimo dei miei fratelli, l’avrete fatto a me". Donano al povero, quindi, tutto quello che avevano trovato nella dispensa. E dico “tutto”, al rischio di restare loro stesse senza pranzo o senza cena. Questo, però, non avveniva mai: prima della sera arrivava sempre qualcuno: compagne, amici, conoscenti, a portare viveri in abbondanza. Eh sì, il vangelo lo dice: "Date e vi sarà dato". Esse applicavano alla lettera la parola del vangelo ed Egli, Gesù, attuava alla lettera le sue promesse.

E quando non avevano proprio niente da donare ai poveri, avevano letto nel vangelo: "Chiedete ed otterrete". E arrivavano subito dei barattoli con latte in polvere, marmellate, legumi, ortaggi… Legumi e ortaggi arrivavano pure a me ed io li portavo subito alla ‘casetta’. Era necessario, perché in quel periodo, in seguito a un bombardamento che aveva colpito un’ala dell’Ospedale, non essendo più sicuro, avevano trasportato attrezzature e ammalati all’Ospedale di Pergine e io ero stata inviata in servizio al rifugio di San Martino.

San Martino era una zona molto a rischio perché in linea d’aria vicinissima alla rete ferroviaria, che era continuamente bombardata. Naturalmente anche qualche casa veniva colpita, per cui molte famiglie rimanevano senza tetto e, chi non aveva parenti o amici nei paesini vicini a cui chiedere asilo e ospitalità, era stato costretto a portare una brandina nel rifugio e viverci dentro giorno e notte. Io allora, a mezzogiorno, uscivo dal rifugio e andavo alla “casetta” dove, con i legumi e le verdure avevano preparato un abbondante minestrone in un grande tegame a due braccia. Per cui aiutata sempre da qualcuno lo portavo nel rifugio, e così potevo offrire a tutti quegli affamati una porzione di minestra calda.

Insomma, queste mie compagne donavano proprio tutto. E come dovevamo comportarci noi, desiderose di imitarle nel loro modo di vivere, affascinate pure noi dalla Parola del Vangelo?

Per prima cosa, sarebbe stato bene liberarci di tutto quello che ritenevamo superfluo. Che me ne facevo io di una pelliccia, oppure della racchetta da tennis, di una collezione di francobolli, un braccialetto d’oro…? Era bene vendere tutto questo per mettere il ricavato in comune. Guardavamo con ammirazione e desiderio a quella prima comunità cristiana in cui tutti i beni venivano messi in comune per cui nessuno si trovava nell’indigenza e dove c’era un cuor solo ed un’anima sola.

Un giorno un mio zio mi porta un paio di scarpe troppo strette per lui. “Potranno servire a un tuo povero”. Corro nella “casetta”, ma quella mattina non trovo nessuna delle mie compagne. Metto sotto il braccio il pacchetto e mi dirigo verso l’Ospedale dove lavoro. Durante il tragitto incontro proprio Chiara che usciva dalla chiesetta di Santa Chiara. “Proprio te, Chiara – le dico – ho un paio di scarpe per uno dei tuoi poveri”. “Ci volevano proprio – mi risponde –. Mi sai dire il numero?”. “Certo, portano il numero 42”. “Proprio quelle di cui avevo bisogno!”, esclama con gioia. Io ero ignara di tutto: non sapevo che, la sera prima, un povero aveva chiesto a Chiara un paio di scarpe di quel preciso numero. Chiara, mossa dall’amore, gliele promette. E in quella chiesina si era rivolta con grande fede al Crocefisso: “Gesù, ho bisogno di un paio di scarpe da uomo, numero 42, per Te nel povero”. Uscendo aveva trovato me che le offrivo proprio quanto aveva appena chiesto! Il Signore mi aveva usata come strumento per esaudire la preghiera di Chiara.

Per la mia attività clandestina e patriottica una volta in settimana io mi dovevo recare a Bolzano, dove c’era il Command Entour. Nelle carceri avevamo anche dei nostri compagni. Io normalmente portavo in un posto indicato e da noi ben conosciuto dei viveri per questi carcerati e anche degli indumenti di lana, soprattutto per le persone nel campo di concentramento, perché sapevo che soffrivano il freddo. Inoltre vi andavo per assumere informazioni. Dovevo essere a conoscenza per poi comunicarlo ai miei compagni, se qualcuno dei nostri amici prigionieri, sotto le torture, avessero pronunciato dei nomi. In questo caso, tornando a Trento, avrei dovuto riferirlo alle persone interessate, in modo che potessero sottrarsi alle ricerche delle SS.

Le prime volte mi recavo a Bolzano in bicicletta, poi avevo trovato un mezzo più semplice e meno faticoso. Mi fermavo ai margini della strada provinciale da dove passavano moltissimi camion tedeschi. Alzavo la mano, uno di questi si fermava, mi issavano a bordo con la mia mercanzia e mi facevano poi scendere nelle vicinanze di Piazza Walter, a Bolzano. Quando arrivavo, la piazza era immersa nel silenzio più assoluto: era un’ora in cui generalmente sorvolavano gli aerei e le persone preferivano trovarsi nelle case perché più vicini ai rifugi.

Dunque io dovevo attraversare questa piazza. Il silenzio era il più assoluto: sentivo soltanto il ticchettio dei miei tacchi sul selciato. E mentre l’attraversavo ripensavo a quel brano bellissimo, evangelico, che avevamo letto insieme a Chiara, sul giudizio finale: “Avevo fame, e mi hai dato da mangiare, avevo sete e mi hai dissetato, ero in carcere e sei venuto a visitarmi…”. Pensavo ancora: io avevo cercato di attirare Chiara alla nostra causa politico-sociale, essa invece aveva conquistato me.

E come vedete sono ancora qui!

 



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Franco De Battaglia
A Trento con Chiara Lubich. Le parole dei luoghi.
Il Margine, 2011